ABO: Con te la scultura perde di peso gravitazionale e sembra sempre più un qualcosa che perde volutamente le radici e acquista la capacità del volo.

 

SK: È vero. Leggerezza, indipendenza e il creare una situazione di svolta sono elementi importanti nel mio lavoro. Le sculture viaggiano, non rimangono nello stesso luogo per sempre o per lunghi periodi, vanno verso altri progetti. Si mutano in nuovi contesti. Sono queste le “metamorfosi“ delle quali hai parlato nel tuo testo sul mio lavoro. Le mie opere spariscono , riappaiono con modifiche e si amalgamano nuovamente.

 

ABO: Infatti le tue installazioni nello spazio non si oppongono, si fondono allo spazio. Si crea una integrazione sotto il segno del labirinto. Il labirinto contraddistingue tutto il tuo lavoro, perché crea non solo uno spaesamento, ma anche un’esperienza visiva, corporale, di movimento. E dunque il labirinto è indicazione che non c’è una direzione unica nello spazio, ma esiste, direi, un immaginario che si diffonde in uno spazio diffuso, aperto.

 

SK: L’opera chiamata “Labirinto” era anche il primo lavoro, sia pure di fragile carta, tela e inchiostro, che ho esposto in un ambiente esterno. Sotto il cielo, in una zona

senza limite verso l‘alto, nel fondo di una cava abbandonata. Un luogo solitario esposto al vento e alla pioggia. Poi questo lavoro strapazzato dagli elementi è stato portato in un museo, dove gli spettatori attraversavano quel che ne era rimasto dopo le tempeste. È stato poi di nuovo esposto all’aperto fino a dissolversi.

 

ABO: Infatti la tenda, il labirinto, le ruote, sono tutte opere che indicano nomadismo, spostamento, superamento del confine. Una continuità del dentro e del fuori. L’idea del nomadismo è un’idea che nel tuo lavoro è anche frutto, credo, di un erotismo che tu riconosci all’arte. L’arte è una forma plastica, in movimento, che non è rigida. L’arte è una forma di espressione che ha una sua disciplina, ma anche un suo libertinaggio.

 

SK: La mia arte si basa su regole che definisco io stessa, certamente non mi sottometto alle regole del mercato, per esempio con uno stile riconoscibile a prima vista. Le mie opere seguono un filo rosso, una consequenzialità forse più riconoscibile con il passare degli anni. Nel momento del montaggio e della costruzione dell’opera lavoro in modo assai libero sulla base di materiali e ‘semilavorati’ che ho preparato. In questo modo la forma rimane aperta fino all’ultimo momento ed è così dinamicamente esposta all’influenza dei luoghi.

 

ABO: Le tue installazioni non si possono definire solo come sculture all’aperto o al chiuso. Ma c’è sempre una relazione col segno, col colore, col disegno, con la gestualità, che tende ad indicare lo spostamento. Che rapporto vivi tra pittura e scultura nelle tue istallazioni?

 

SK: Il rapporto è molto simbiotico: le prime idee per una scultura sono uscite dalla mia pittura, che per 20 anni aveva rappresentato la mia sfera di azione principale. Già all’inizio degli anni ottanta avevo l’idea di fare una pittura nella quale si potesse entrare. Per esempio le ali, le tele fluttuanti e i caroselli di colori. Le costruzioni erano ancora dominate dal colore.

 

ABO: Diciamo che le tue installazioni acquistano dinamismo proprio attraverso la pittura e il segno è la gestualità.

 

SK: Giusto, a quel tempocelebravoanchela sensualità del colore.

 

ABO: C’è sensualità, ma c’è anche drammaticità. Per esempio “L’immagine spezzata”, opera che è come un flusso di un alfabeto visivo di forme archetipo, che va dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso. Certamente gli si può girare intorno e nello stesso tempo credo segnali anche quest’idea del tempo: che va dalla vita alla morte, ma che dopo la morte può ritornare alla vita.

 

SK: Quel lungo soggiorno presso i Goethe Institut in India e Pakistan ha lasciato tracce importanti. Nel 1995 – 1996 ho preparato 5 mostre, tutte in posti diversi nel grande sub-continente. Ho visto cose che non avevo mai visto prima: la sofferenza dei poveri, dei bambini, un abbandono totale al proprio destino, ma anche una felicità e una fede enorme. In quel periodo ero particolarmente sensibile, avendo io stessa un bambino piccolo da curare e custodire. Cercavo di capire meglio attraverso la filosofia e le religioni, soprattutto quella hindu che include la morte solo come un momento nell’eterno ciclo di nascita e rinascita. Certamente da quel periodo intenso porto l’oriente anche un po’ in me.

 

ABO: Quello che c’è di orientale nel tuo lavoro è anche la fragilità dei materiali: bambù,stoffe, carta. Però anche il geroglifico, che, sottratto al significato orientale, anche noi occidentali possiamo guardare, ma vedendolo come un alfabeto archetipo, simbolico.

 

SK: Èproprio cosi che ho congelato l’esperienza orientale nel mio lavoro. Anche come componente che indica un ultimo segreto.

“Il DivanoOccidentale-Orientale” di Goethe, “Nathan il Saggio” di Lessing, ma anche gli scritti di Muhammad Iqbal e di Mansur Al Haladj rimangonoper me opere preziose. Si creano ponti di materiali fragili e pensieri preziosi.

 

ABO: Le tue istallazione viaggiano verso l’opera totale in cui tutti i linguaggi si integrano, fino a sfiorare la letteratura, ma nello stesso tempo, con una grande apertura, verso ogni territorio, che può essere la terra ferma, lo spazio urbano, lo spazio naturale e il mare. C’è in particolare il tuo lavoro ‘Bilancia’ che ha a che fare con l’idea dell’acqua, della profondità, della nascita della vita là dove è nata l’umanità, del movimento e nello stesso tempo della sospensione. Quindi direi che le tue installazioni non hanno il difetto della scultura di occupare lo spazio, non debbano chiedere scusa al mondo. Proprio attraverso l’intervallo, la sospensione, riescono a stabilire un rapporto dialettico col contesto. La‘Bilancia’ come si situa in questo tipo di atteggiamento?

 

SK: Le bilance alla foce del Tevere le ho viste per la prima volta al mio arrivo a Romanel 1984. Ero affascinata di questa costruzione assai filigranata, composta solamente di tubi, reti e filo d’acciaio, che incorniciava l’intoccabile spazio sopra l’acqua e stavain equilibrio sopra la sua superficie specchiante. Inoltre la struttura era stata costruita, modificata e adattata durante gli anni, un modo di lavorare che mi appartiene. Ho comprato questa struttura dai pescatori, l’ho smontata e poi l’ho rimontata su un bunker in Danimarca. Aveva esattamente 50 anni, come i 50 anni dalla fine della guerra che si celebravano sui bunker della costa danese nella mostra Fredskulptur 1995. La bilancia era perfetta per la mia intenzione di appendere un simbolo della vita e della trasparenza sopra l’acqua e nel vento, come contrasto maggiore possibilecolcemento del bunker. Sulle rete fluttuavano i disegni dell’orecchio interno dell’uomo, organo cruciale per camminare eretti, per l’equilibrio e lo sviluppo dell’uomo.

La costruzione era così affascinante per me che volevo usarla ancora in altri modi e contesti.

 

ABO: Euna bilancia diventa una bilancia anfibia, dove al posto dei pesci ci sono i disegni. L’acqua nel tuo lavoro è un elemento fondamentale. È l’elemento di scorrimento, della nascita, della vita, inquanto l’acqua produce poi i suoi effetti nella natura. Anzi come si dice: la natura non si ferma mai. E in questo senso interessante è anche il fatto di superare le previsioni della natura e infattitu hai fatto un lavoro “Quando i fiumi scorrono all’indietro”. Come hai prodotto quest’inversione di scorrimento?

 

SK: In questo lavoro decidevo di lavorare su un pontone pesante, quasi come una nave. Saldavo prima il villaggio di capanne primitive di argilla cruda su degli stand e poi sul pontone. Ho chiamato quest’insieme “Quando i fiumi scorrono all’indietro”. L’elemento importante era che,ad intervalli regolari, questo insieme veniva spinto contro corrente sul fiume Elba, passando davanti allasilhouette di Dresda. Erano momenti particolari. Le due Germania erano nel pieno delirio di crescere di nuovo insieme, di costruire e guardare solo avanti e non all’indietro. Intornoc’eranoinnumerevoli cantieri per progetti immensi e ambiziosi. Si lavorava a un risorgimento di grandezza. Volevo creare qualcosa di primitivo e semplice che si confrontasse con questa frenesia.

 

ABO: Ho sempre pensato e anche dichiarato che l’arte progetta il passato. E quindi i fiumi possono anche scorrere all’indietro. E nello stesso tempo l’arte può riassumere, come nel tuo lavoro alla biblioteca della vita,iniziato nel 1982 è ancora un ‘work in progress’. Arrivato ormai a trenta volumi, che sintetizzano la tua vita, le tue esperienze, le tue sensazioni, le tue emozioni, è un catalogo generale autogestito e nello stesso tempo una biblioteca aperta sul futuro.

 

SK: Si, molto aperta. Il tema dei libri l’ho elaborato pagina per pagina:vanno da disegno e pittura sopra fotografie al collage e a testi. Ho anche fatto libri oggetto, come scultura. Questi libri sono l’archivio della mia vita: ogni evento importante vi ha trovato espressione. C’è sempre un blocco per schizzi o un diario che mi accompagna dovunque vada. Accumulo in pile questi libri, qualche volta sui pancali, qualche volta li espongo aperti, visibili in vetrine.

 

ABO: In una cornice a te piace lo sconfinamento. In fondo sei anche una trasgressiva. Assolutamente amorale, non immorale.

 

SK: È difficile per me accettare qualsiasi limite imposto dall’esterno. Nonostante ciò utilizzo in gran parte i materiali classici dell’arte, come per esempio carta, tela, matita inchiostro. Ho sempre avuto un carattere sperimentale, la curiosità di vedere dove si potrebbe arrivare. Vedo l’enormità di possibilità che si devono ancora sperimentare.

 

ABO: Sei trasgressiva, non solo sul piano linguistico. Anche perché tu vuoi creare un corto circuito fra arte e vita, tra spazio e tempo. Tant’è vero, per esempio, che tu non ti fermi a contenere le tue esperienze nei libri della biblioteca, adesso sei arrivata a creare le stanze dell’evoluzione : una distribuzione iconografica di segni, di una sorta di alfabeto visivo collocato e distribuito come una costellazione.

 

SK: Mi interessava sviluppare un sorta di alfabeto, facendolo scaturire dalle anatomie dei primi esseri in acqua e terra. Quelli che sembrano segni astratti sono, ad esempio, concreti momenti nello sviluppo dal pesce verso l’anfibio che si riferiscono soprattutto alle trasformazioni delle pinne e della coda. Volevo dare un segno iconografico, però legarlo a un processo cruciale per la vita. Il mio alfabeto contiene 250 segni. Le prime due stanze dell’evoluzione le ho mostrate negli Stati Uniti, l’ultima a Teheran.

 

ABO: Descrivimi la differenza fra l’America e l’Iran, come esperienza creativa.

 

SK:Reagisco prima di tutto agli spazi. I luoghi erano molto diversi: quello di Teheran come un palcoscenico, completamente nero, quello americano piuttosto neutro. Ho avuto molti problemi pratici e organizzativi a Tehran che hanno influenzato le mie possibilità creative. Quasi immediatamente, però, ho trovato la soluzione anche grazie alle persone intorno a me che erano pronte ad aiutare, addirittura correndo qualche rischio. Esco da queste esperienze sempre, come anche in Pakistan, con un grande amore per le persone che ho conosciuto e per il paese. Le influenze creative si manifestano spesso più tardi, qualche volta dopo anni.

Le mie esperienze negli Stati Uniti sono straordinarie, mi offrono possibilità che raramente ricevo in altri posti.

 

ABO: I diversi contesti, oriente e occidente, come hanno influito sull’opera?

 

SK: Forse in modo tale che ora sono in grado di portare a termine questa nuova installazione “Gerusalemme”, nella quale cerco di integrare lati apparentemente opposti.

 

ABO: Nel tuo lavoro c’è sempre anche l’idea di un sospetto che esiste l’imprevisto, il caso e c’è anche l’idea della lacerazione, della rottura. Che cos’è la lacerazione, sempre violenza o anche sviluppo, crescita e trasformazione?

 

SK: Vuoldire tutto ciò, ma anche una ferita. Un progetto ancora non realizzato è di costruire in qualche modo una cicatrice, cosicchési potrebbe sentire visualmente il dolore. Niente di sanguinoso, solamente attraverso disegni, una specie di rilievo per il muro. Credo che la ferita e la cicatrice potrebbero essere un simbolo del nostro tempo, la ferita interminabile e la cicatrice che non si chiude mai.

 

ABO: Nietzsche diceva che per costruire bisogna prima distruggere: tu che ne pensi?

 

SK: Nell’arte esiste questa regola senz’altro, anche nella natura qualche volta. Spesso una pittura è persa quando uno cerca di salvarla. Ma se si è pronti a rischiare tutto, anche una apparente distruzione, sembra che l’immagine trovi la sua vera direzione. Ogni artista lo sa. Ma per me rimane importante dare un passato ai lavori, come una archeologia o geologia. Trovo entusiasmante leggere nelle diverse stratificazioni che cosa è successo all’opera. Quante volte Tintoretto ha distrutto le sue immagini in processi intermedi prima di trovare la composizione finale. Non lo ha fatto sempre liberamente, ma si sente la densità e la ricerca, il rigettare e il tormento di trovare la giusta forma.

 

ABO: Dalle stanze in evoluzione alle stanze bloccate. Che cosa sono?

 

SK: Silenzio, intervallo, movimento congelato, interstizio. La mostra si chiamava: “nel correre delle cose esiste anche un momento di stasi (imLaufderDingeistauchStillstand)”. Era poco prima dell’11. settembre 2001.

Voleva esprimere con le stanze bloccate anche uno stop: non percorribilità, gabbia dentro/ fuori – questo era ambivalente.

 

ABO: E direi che nel tuo lavoro predominano due cose: il ritmo e la linea. E la linea non è mai rigida è sempre una geometria avvolgente della linea curva. È la parte femminile della tua identità.

SK: Può essere che il mio interesse all’arabesco, all’avviticchiarsi delle linee, al crescere sia piuttosto femminile. L‘elemento ritmico lo associo invece al mio lato musicale, alla fascinazione per la danza,ma anche al mio interesse per l’astrazione.

 

ABO: C’è sempre anche l’idea della fluidità dello scorrimento. A San Giovanni in Orvieto hai realizzato un opera che dà l’idea della cascata.

 

SK: Si mi dà profondamente il senso di un attimo di pace, un interstizio di purificazione. A volte rivedo il video sul lavoro: è come una composizione musicale, inserita temporaneamente in uno spazio bellissimo di armonia edeuritmia, in uno spazio che ho raramente a disposizione. La fontana nel centroè il punto iniziale di una cascata di linee che scorre come acqua e si distribuisce come i fiumi fino agli ultimi angoli del cortile.

 

ABO: Però poi in qualche modo tu dialoghi molto con l’architettura, col contesto, con lo spazio esterno. Per te non esiste un’opera contro lo spazio. Lo spazio entra sempre nel tuo lavoro e tu entri sempre nello spazio. Anche quando lavori in verticale, quando realizzi ‘la torre di Marzahn’ che tende quasi a creare la possibilità che l’opera superi il tetto, apra l’architettura e si unisca en plein air con l’universo.

 

SK: Lo spazio è la prima condizione alla quale mi ispiro e mi riferisco. Lavoro volentieri per spazi specifici in ambienti determinati. Il quartiere Berlin – Marzahn aveva tutto questo: uno spazio controverso in una zona interessante non priva di conflitti.

 

ABO: Come si differenzia la ‘Torre di Marzahn’ da ‘Meandro’?

 

SK: ‘Meandro’ e la ‘Torre di Marzahn’ hanno punti di partenza simili,ma differiscono al loro interno. Hanno un’altezza simile e in entrambi i casi tutto si svolge sotto un tetto di vetro: le due opere comunicano con il cielo.La ‘Torre di Marzahn’ si svolge sopra una struttura rettangolare, ‘Meandro’ salta invece da anello a anello, cade su una superficie a specchio e affonda così nell’infinito del mare. ‘Meandro’ non è architettura ma natura.

 

ABO: L’idea della trasparenza, della continuità, della differenza, della conflittualità, del passaggio e del confronto. Nello stesso tempo a un certo punto ti sei chiesta dove e come nasce la vita. ‘L’uovo primordiale’ è quell’opera dove tu vuoi esprimere le forze che si liberano dal guscio, che si muovono e occupano, si espandono nella realtà, nella vita e nel mondo.

 

SK: Eraun’ idea simile alla biblioteca, disegni e pittura si accumulano ma restano invisibili nei loro contenitori. L’uovo è costruito fin dall’inizio con i disegni sulla vita, le anatomie, le emozioni, fino a formare un uovo, pieno fino a esplodere, per dar vita a qual cosa di grande.

 

ABO: E diciamo che questa nascita, questa espansione dà anche l’idea del ritmo della vita. Nello stesso tempo per te non esiste solo la vita ma anche la sopravvivenza. Il kit della sopravvivenza per esempio, che si esprime in una sospensione, in altezza?

 

SK: Per me è un simbolo di speranza, di riuscire sempre a salvarsi dalla caduta nel profondo, mai rassegnarsi. La cadutaèsospesa in un momento magico, quattro metri sopra la terra. In questo c’è anche qualcosa di simile all’immagine cristiana del mantello della Madonna che si apre sopra tutto.

 

ABO: Il simbolo che afferma questa speranza è anche l’albero, è il cielo. Hai fatto dei lavori proprio attraverso l’uso, l’idea dell’albero. La natura che hai esplorato anche con il fondo del cervello. Con un’opera in orizzontale, che dedichi a chi è stato, come dici tu, il tuo maestro della natura, il contadino Giovanni, e dove tu tiesprimi in un disegno grande sul prato: una rappresentazione a livello direi proprio di superficie. Ancora una volta il labirinto del pensiero, la descrizione del cervello.

 

SK: Imparo della natura stessa, grazie a Giovanni, il mio maestro in natura, che sapeva quando si semina e quando si raccoglie, quando si gira la terra e che cosa vogliono gli alberi nei diversi momenti dell’anno. L’albero stesso è diventato, dopo la morte di Giovanni, un maestro per me: mi dice come devo fare. Come fanno gli olivi che curo osservandoli. Forse ho potuto creare opere come ‘The Gold and Tar Project’ o ‘il disegno degli alberi in cielo’ solo perché ho osservato gli alberi, le loro ramificazioni, che si trovano anche nel nostro corpo, non solamente nel cervello, ma anche negli altri organi. Riesco in momenti specialiad agganciarmi e a sentirmi per un attimo in un unicoflusso con la natura.

 

ABO: Tu lavori sulla relazione arte e vita e dunque non sull’identificazione. Lavori sulle zone di confine. Che cos’è per te la ‘zona di confine’?

 

SK:La zona di confine è scolpita nella mia anima. Avendo vissuto per anni in una Berlino divisa dal muro, potendo andare a trovare gli amici a Berlino -est solamente attraverso specifiche zone di confine: la zona della terra di nessuno, la zona della morte, si impara: le zone di confine non scherzano, ma minacciano la vita, possonosignificare morte, ma ci si abitua anche a questo.

 

ABO: A te interessa più che altro essere apolide, in un territorio di libera circolazione. Infatti tu hai fatto proprio un lavoro ‘Carosello delle linee’.

 

SK: Siè vero. La linea che danza, fluttua senza attaccarsi. Vivo negli interstizi di paesi, nazionalità e anche forme di arte. Tiro fuori da questo stato un vantaggio, appartengo a ciascuna e a nessuna parte.

 

ABO:In realtà appunto a te interessa proprio, e l’hai dichiarato e l’hai realizzato,disegnare sinapsi.

 

SK:…e vivere gli impulsi, realizzando connessioni inattese.

 

ABO:Le tue installazioni non entrano nello spazio, ma creano uno spazio. Un’esperienza per l’artista e un’esperienza per lo spettatore.

 

Un dialogo tra Achille Bonito Oliva e l‘artista Susanne Kessler a Roma 2015 , pubblicato nel libro „Susanne Kessler_Framing Space“ in occasione della personale al Museo American University-Katzen Art Center a Washington, DC, 2015